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LA DISABILITÀ E LE PAROLE 

Gestire la disabilità in qualsiasi contesto richiede la messa in campo di una pluralità di azioni che hanno come sfondo un profondo cambiamento. Va infatti abbandonata la prospettiva dell’inserimento delle persone con disabilità come mero obbligo morale o normativo (come avviene per esempio nel mondo del lavoro), per abbracciare la cultura dell’inclusione e della valorizzazione delle capacità di cui ogni individuo è portatore nell’organizzazione.

Fondamentale è l’impegno a favorire la piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità alla vita sociale, lavorativa o sportiva su una base di uguaglianza. La linea di azione è tracciata dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che parla di pari opportunità, accessibilità e “accomodamenti ragionevoli”, contrasto a discriminazioni, stereotipi e pregiudizi e, non ultimo, di riconoscimento del contributo delle persone con disabilità nell’ambiente lavorativo. 

 

Questo profondo cambiamento parte dalle parole che usiamo per definire la Disabilità, cosa che, ne siamo certi, ha messo e mette in imbarazzo chiunque si trovi a doverla definire con una parola. Quale termine è opportuno usare? Ecco alcune riflessioni, nate dall’esperienza sviluppata alla Cooperativa Sociale di tipo B LA COMETA di Trecate (NO), nella quale opero da volontario da circa un anno e mezzo.

·    Mai identificare una persona con la sua disabilità

Quando parliamo di persone con disabilità dobbiamo aver presente sempre che ciascuno va considerato prima di tutto per ciò che è, ovvero come persona. E la persona non dovrebbe mai essere identificata con la sua disabilità, attraverso etichette che tendono a spersonalizzare.

Le etichette portano a enfatizzare o rendere visibili solo alcuni aspetti, le sole vulnerabilità, che nascondono l’individuo visto nella sua interezza e nel complesso di tutte le sue caratteristiche e attitudini. Le etichette dunque producono stereotipi.

L'errore nel quale spesso si cade è quello di evidenziare la disabilità mettendo in secondo piano l’individuo. Una persona, anche se disabile, non è certo la sua carrozzina o la sua menomazione.

·    No al termine handicappato

Un termine oramai da rifiutare è handicappato. Esso deriva dall’inglese handicap (da “hand in cap”, mano nel cappello), il quale proviene dal nome di un gioco d’azzardo diffuso tra il XV e il XVII secolo, che consisteva nel nascondere con le mani, all’interno di un cappello, la posta in gioco. “Il gioco si basava sul baratto o scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari”. Il termine è stato poi mutuato dal gergo delle corse di cavalli (in cui si dava al cavallo più forte uno svantaggio, un handicap appunto, al fine di rendere più equilibrata la gara). 

In italiano handicap sarebbe entrato proprio come tecnicismo ippico, per poi diffondersi, nei primi decenni del Novecento, ad altri ambiti, tra cui quello medico‐sociale, con significati connessi all’idea di svantaggio, deficienza, incapacità fisica e mentale. Il termine avrebbe poi indicato una condizione di svantaggio determinata da un deficit fisico o psichico, che trova soprattutto impiego, intorno alla metà degli anni Settanta, nel mondo della scuola. Nelle loro accezioni medico‐sociali handicap e handicappato sono stati avvertiti come legittimi almeno fino agli inizi degli anni Novanta, tanto che, ancora nel 1992, la Legge Quadro 104 ha regolato l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle “persone handicappate”. Essi hanno assunto nel tempo una connotazione negativa, sminuente e offensiva, e da tempo, in molti paesi, non si usano più. Nel linguaggio di uso comune si sente spesso anche l’espressione “persona portatrice di handicap”. Ricordando che l’handicap è uno svantaggio che, per esistere, deve essere vissuto in una determinata situazione o contesto, e che è appunto quella situazione o quel contesto che lo causa, non si può certo dire che una persona “porti con sé” l’handicap. Insomma, la parola non è sinonimo di deficit o disabilità, piuttosto designa lo svantaggio conseguente al fatto che la società non è progettata a misura di chi ha caratteristiche fisiche, cognitive, psichiche o sensoriali non maggioritarie.

·    La disabilità non è una patologia

La disabilità non è una malattia, bensì̀ una condizione, che potrebbe essere migliorata o addirittura annullata se mettessimo a disposizione della persona gli strumenti appropriati (un ingranditore, un software, un montascale, un servizio di assistenza e tanto altro). È quindi sbagliato dire affetto/a da disabilità, soffre di...” 

·    Rifuggiamo da un linguaggio compassionevole o pietistico 

Tutte le parole che rimandano a un’idea di dolore e sofferenza, o le narrazioni che descrivono la persona con disabilità come “vittima”, sono sminuenti, poco rispettose e rinforzano una percezione negativa della disabilità. Pensiamo ad esempio all’uso dell’espressione costretto sulla carrozzina. Piuttosto diciamo persona che usa la carrozzina: la carrozzina è un mezzo per favorire la mobilità e accrescere l’indi‐ pendenza, che dà la possibilità̀ alla persona con disabilità motoria di muoversi più agevolmente e di vivere le azioni della quotidianità̀. Aiuta, non limita. 

Anche definire le persone con disabilità come speciali, come eroi, o considerarle una ispirazione unicamente per il fatto di avere una disabilità, è retaggio di stereotipi “abilisti” e di pietismo. La disabilità, di per se stessa, non rende migliori o peggiori, ma è una caratteristica dell’individuo “nell’eterogeneità delle sfaccettature umane”. 

L’obiettivo di un linguaggio rispettoso e inclusivo è proprio “ricondurre a ordinarietà tutte le caratteristiche umane” 

·    “Diversamente abile”: facciamo attenzione

Ecco una delle espressioni più contestate nel campo della disabilità, insieme al suo parente prossimo, diversabile. Diversamente abile nasce negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80 ad opera del Democratic National Committee, che cercava un’alternativa al termine handicappato. Da qui l’espressione inglese differently abled, diversamente abile, appunto. L’enciclopedia Treccani evidenzia che con tale locuzione si intende “accentuare la positività delle abilità della persona, pur diverse da quelle comunemente riscontrate in altri soggetti di pari età, e sottolineare la necessità di assumerne le potenzialità piuttosto che evidenziarne i limiti”. In tal senso “... la locuzione diversamente abile non è indicatrice di handicap, come talvolta si ritiene, poiché segnala l’esistenza di abilità altre e non di per sé minori”. Il giornalista e scrittore Claudio Imprudente, che ha contribuito alla sua diffusione in Italia, la considera infatti un’espressione capace di cambiare l’immagine comune della persona con disabilità: pur cosciente che “questa parola contiene in sé una piccola ipocrisia, che tende a mettere completamente in secondo piano il deficit”, la ritiene “una semplice provocazione che ci mette in grado di aprirci a prospettive e reazioni ulteriori”. Una provocazione che ha suscitato però forti reazioni contrarie. Il giornalista Franco Bomprezzi, e con lui molti altri, considerava questa locuzione buonista e ipocrita, anche se questa non era l’intenzione di chi l’ha creata: “In Italia, più che altrove, la disabilità è connotata negativamente, come un fardello ingombrante, un peso, un carico di sfortuna, di sofferenza, di diversità, di dolore. Le persone con disabilità in Italia si dividono in due: eroi o vittime. La normalità non esiste, viene sacrificata sull’altare di una comunicazione fuori registro, spesso ignorante e superficiale, incapace di trovare la sintonia tra le parole e le cose”. “Quando si arriva a ritenere che la disabilità sia quasi una terza abilità, cioè una capacità speciale rispetto alla cosiddetta normalità, vuol dire che si deve ricorrere a un artificio semantico per non registrare la realtà”, affermava. E ancora: “Se continuiamo a pensare che la disabilità sia qualcosa di ‘diverso’, addirittura una grande opportunità per sviluppare ‘diverse abilità’, facciamo un grave torto a quei milioni di persone nel mondo che ogni giorno si battono solo per vedere rispettati i propri diritti di cittadinanza alla pari degli altri...” 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quindi? Proviamo ora a mettere un po’ di ordine logico a tutte queste parole, per trovare la giusta chiave di lettura.

·      Ci sono PERSONE che presentano menomazioni fisiche, psichiche o sociali di diverso livello (per esempio, ci sono individui che vedono meno della media).

·      Queste PERSONE, in alcune situazioni sociali, lavorative o sportive, a causa della loro situazione, presentano quindi una DISABILITÀ (con lo stesso esempio di prima, quegli individui leggono con difficoltà un quotidiano o un documento).

·      Le stesse PERSONE hanno quindi uno SVANTAGGIO (HANDICAP) rispetto alla media.

·      Uno strumento, un presidio, un contesto, un processo pensato “ad hoc”,  utili a RIDURRE LO SVANTAGGIO, possono AGIRE POSITIVAMENTE SULLA DISABILITÀ e sulla menomazione (sempre con lo stesso esempio di prima, quegli individui che a causa di un deficit visivo non riescono a leggere un quotidiano o un documento, possono farlo con successo utilizzando un paio di occhiali o nei casi più gravi, un visore).

Se questo ordine logico (e il banale esempio allegato) è chiaro, è facilmente comprensibile che le parole giuste sono: 

·       PERSONE  

·     DISABILITÀ

·     SVANTAGGIO 

e che persone che, a causa di un problema fisico, psichico o sociale, presentano una disabilità, possono essere aiutate, attraverso strumenti, presidi, contesti, processi operativi, a ridurre lo svantaggio che hanno rispetto ad altri individui, valorizzando quindi la loro potenzialità in tutti i contesti sociali, lavorativi e sportivi.

A noi della Cooperativa Sociale LA COMETA piace usare anche la parola FRAGILITÀ e ciò che facciamo ogni giorno è supportare in ambito sociale, professionale, sportivo, ludico e musicale, i nostri cinquanta ragazzi, in modo da ridurre o abbattere quelle situazioni che rendono evidente la loro fragilità.

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